Alexander Reed non usa neanche una volta l’espressione “malati di Parkinson”, ma, tradendo la madrelingua inglese nell’accento e nell’uso di preposizioni ed articoli, parla sempre e solo di “persone con Parkinson”. La sua figura imponente si sposa con un sorriso garbato e i tratti somatici inequivocabilmente britannici. E nel corso della nostra conversazione usa il “noi” con disinvoltura perché Reed, direttore e fondatore dello European Parkinson Therapy Centre (www.terapiaparkinson.it), centro all’avanguardia con sede alle Terme di Boario, in provincia di Brescia, convive con questa terribile malattia dall’età di 47 anni. La sua creatura è un unicum europeo e un esempio incontrastato e innovativo per tutti gli istituti che trattano questa patologia. Per dimostrare che con il Parkinson si può imparare a convivere, rimodellando la propria esistenza e il proprio quotidiano e migliorando la qualità di vita.

Come nasce l’idea dello European Parkinson Therapy Centre?

«È nata da una realtà oggettiva: quando noi persone con Parkinson usciamo da un istituto sentendoci dire “Ci vediamo tra sei mesi”, la nostra vita cade a pezzi. L’ho vissuto in prima persona e so quanto questo coinvolga tutti i familiari. Perché il Parkinson tocca tutta la famiglia. Il progetto, quindi, nasce proprio dall’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle. Il mio lavoro è sempre stato quello della consulenza aziendale, ossia di fare business per altri. In questo caso, abbiamo pensato di creare un’associazione no profit per il bene dei parkinsoniani, partendo da un punto ben preciso: c’è qualcosa che non va e quello che non va è che le persone con Parkinson si sentono veramente in difficoltà; il problema maggiore è quello di fornire informazioni corrette a persone che spesso non vogliono riceverle, perché cadono in depressione: oltre il 50 per cento delle persone con Parkinson è chimicamente depresso e affetto da apatia. Così, per raggiungerle abbiamo coinvolti i maggiori nomi del settore a livello mondiale, attivi, principalmente, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti; nomi come il dottor Jay Alberts della Cleveland Clinic, esperto mondiale del “forced exercise”, e la dottoressa statunitense Becky Farley, uno dei massimi esperti mondiali degli effetti dell’esercizio sul Parkinson».

Quali sono le novità di questo Centro rispetto agli istituti già esistenti all’interno di numerosi ospedali italiani?

«La differenza fondamentale è che noi lavoriamo all’interno di un luogo destinato al benessere come le Terme di Boario, e questo favorisce le persone con Parkinson ad accettare l’aiuto che offriamo loro. Perché vengono qui per sentirsi bene e l’approccio non è quello di chi entra in un ospedale con la consapevolezza di essere un malato. Inoltre, trattiamo tutta la famiglia e tutta la famiglia è benvenuta. È un fattore importante perché non è facile vivere con qualcuno affetto dal Parkinson: fare troppo equivale a trattarci come vittime. E, proprio come le vittime di guerra che non hanno alcuna scelta, le vittime del Parkinson pensano di non avere alcuna scelta. Ma non è così. Il Parkinson è una delle poche patologie in cui il singolo può cambiare il futuro della malattia stessa. Ma, purtroppo, le persone con Parkinson non arrivano a conoscere questa verità».

Qual è il metodo per fargliela scoprire?

«È un approccio multilivello modellato sul nostro programma-protocollo teraupetico ReGen. Lavoriamo contemporaneamente sui quattro pilastri della terapia; ossia prendiamo in considerazione tutti gli elementi per ricostruire e restituire la speranza e la verità ai parkinsoniani. Il primo pilastro, ovviamente, è la Medicina; segue il Movimento che è fondamentale, perché i suoi effetti proteggono dalla neurodegenerazione e accrescono la plasticità. Il movimento va impiegato in quella particolare terapia, da noi sperimentata, in cui i parkinsoniani applicano mente e corpo per ricostruire nuovi collegamenti neuronali, per recuperare il movimento come si fa dopo un ictus. Terzo pilastro fondamentale è lo Stile di vita. Spesso dimentichiamo che siamo tutti soggetti ad una condizione degenerativa decisamente peggiore del Parkinson e che ci condurrà alla morte: l’invecchiamento. Ma, sebbene invecchiando intervengano delle limitazioni, non per questo a 60 anni iniziamo a dire che la nostra vita è finita o ci chiediamo perché sia successo. Le persone con Parkinson invece lo fanno, perché il Parkinson non era nei nostri piani. Da piccoli sapevamo tutti che invecchiare è un fatto della vita. Ma il Parkinson distrugge tutto quello che sapevamo. E il nostro lavoro serve a dimostrare che questa patologia non ci distrugge, ma ci limita: il che vuol dire che dobbiamo rimodellare la nostra vita e accettare che il Parkinson è una parte di quella vita».

Quanto è importante anche una terapia psicologica?

«Molto e rappresenta il quarto pilastro del nostro protocollo: perché uno dei problemi più comuni nel mondo Parkinson risiede nel fatto che molte persone non vogliono accettare di avere questa patologia. E accettare non vuol dire chiedersi “Perché è successo a me?” ma “Adesso che ho capito che è successo, cosa faccio?”. È come viaggiare su un treno più lento invece che sul treno veloce su cui eravamo prima. Ma tante persone col Parkinson trascorrono il proprio tempo sul treno lento ripetendo “Vorrei tanto essere sul treno veloce”, invece di scegliersi un posto sul treno più lento e guardarsi intorno. E poi, viaggiando più lentamente si vede la vita in maniera diversa. Questa è la verità: possiamo rallentare la progressione della patologia, ridurne i sintomi e migliorare la qualità di vita. Ma perché questo sia possibile, i quattro pilastri della terapia devono coesistere: non si sostiene una casa costruita su un solo muro. Del resto, è normale che la qualità di vita di un uomo depresso, a cui si somministrano anche tutte le medicine possibili, si approssimi allo zero. Il nostro Centro dimostra la necessità di alcune terapie: in una stanza interattiva audio e video mostriamo le video spiegazioni, fornendo un’informazione più possibile approfondita e che dimostra come certe cose funzionino e altre no. E in 6 giorni la persona con Parkinson si rende conto da sola del proprio miglioramento. Perché lo scopo del nostro Centro non è quello di somministrare esclusivamente la terapia, ma che i pazienti non tornino più qui: vogliamo aiutare le persone con Parkinson a diventare protagoniste e non più vittime. È un cambio di prospettiva fondamentale che trasforma l’esistenza di chi viene nel nostro Centro e che va via con la consapevolezza che la vita non è finita, che la vita può cambiare. Ma chi ha detto solo in peggio? Dobbiamo renderci conto che non abbiamo una maggiore quantità di vita ma che possiamo e dobbiamo lavorare sulla qualità. E non è paradossale: è più paradossale constatare che una larga percentuale dei suicidi avviene nella popolazione tra i 16 e i 18 anni. E questi ragazzi hanno tutta la quantità di vita che vogliono, ma non sanno cosa vogliono. Non è la quantità che conta, ma la qualità». Le sue parole trasudano grande coraggio: qual è la sua storia personale? «La mia è una storia simile a tante altre: prima avevo una vita frenetica, ero un consulente aziendale con un reddito molto soddisfacente. È arrivato il Parkinson e ho capito che non potevo più fare quello che facevo prima. La malattia mi è stata diagnosticata sette anni e mezzo fa. Nei primi 3 anni ho continuato a negare a me stesso la mia nuova condizione, a fare finta di niente. Poi, nel quarto anno, il Parkinson si è fatto vivo, mi ha detto “Sono qui”, ed è stato proprio in quel momento che ho deciso di fare quello che ho fatto. Perché il Parkinson ti cambia la vita. Ma se io non avessi preso il controllo della mia vita dicendo “Cosa voglio fare adesso che ho il Parkinson?” sarei sicuramente a casa a non fare nulla».

E invece ha fatto tantissimo.

«Ci sono tre attività che stimolano particolarmente le persone con Parkinson: fare le cose pratiche, svolgere attività creative – dipingere per esempio – ma, soprattutto, realizzare quanto è scritto nel libro più venduto al mondo: dare e ricevere. Ecco da cosa nasce la mia decisione di aprire questo Centro: proprio dal fatto che ho il Parkinson e possedevo l’esperienza di creare strutture e organizzazioni di livello internazionale. Solo che in questo caso non l’ho fatto per un cliente e non l’ho fatto neanche per un impiego, perché qui sono un volontario. L’ho fatto perché accresce molto la mia qualità di vita e quella di coloro che vengono a trovarci e che acquistano una nuova voglia di vivere».

Il Centro è dedicato a persone che possiedono ancora una certa autonomia. Fino a quale stadio del Parkinson è possibile intraprendere la vostra terapia?

«Fino al Livello 3 [di 5 n.d.r]. Lavoriamo con persone con il Parkinson ai primi stadi – ossia dopo 8 o 15 anni dall’insorgere della malattia -, prima che diventi troppo tardi, perché per riattivare il movimento e rallentare la progressione neurologica del morbo bisogna possedere ancora un certo grado di mobilità. Purtroppo, molti parkinsoniani entrano in quello che Michael Okun, presidente della comunità scientifica internazionale sul Parkinson, definisce “il vortice dell’apatia”, ossia lo stadio in cui la persona non si muove più perché non vuole più farlo. Solamente prima che sopraggiunga questa condizione è possibile dare un nuovo corso alla vita del paziente: è quanto sostiene anche l’Università di Oxford. Perché lavorare con pazienti che possiedono ancora una certa autonomia può fare una grande differenza, mentre non pretendiamo di agire significativamente sul Parkinson avanzato, proprio perché non ci affidiamo esclusivamente alla farmacologia. Come ha detto il direttore di un importante centro ospedaliero: “Più persone vanno in un posto come Boario Terme, meno persone arrivano da me”. Questa è proprio la filosofia che la comunità scientifica europea per la terapia sul Parkinson sta sposando: del resto, il nostro Centro è consulente nel Regno Unito e in tanti altri Parkinson Trust e la nostra clientela è internazionale: solo questa settimana abbiamo un cliente svedese, uno da Cipro, un russo e molti inglesi».

Quindi, il Centro di Boario Terme come punto di riferimento per tutta l’Europa?

«Siamo stati creati proprio come un esempio, per dimostrare come potrà essere la terapia. Noi non facciamo pubblicità ma ci facciamo conoscere attraverso il passa parola, con i risultati del nostro lavoro. Ad esempio, Steve Ford, amministratore delegato di Parkinson’s Uk, ha detto: “C’è in Italia qualcosa che non abbiamo in Inghilterra” e ci ha chiesto di lavorare anche con loro. Perché, il nostro Centro non sostituisce in alcuna maniera il rapporto fondamentale tra neurologo e paziente, ma forniamo la risposta alla domanda da cui sono partito: quando il neurologo diagnostica “Morbo di Parkinson: ci vediamo tra sei mesi”, le persone con Parkinson pensano: “Che cosa faccio adesso?”. Noi forniamo la risposta. E la terapia.
La grande novità del nostro approccio è che il protocollo ReGen prevede che le migliori terapie siano filtrate da un comitato che include persone con Parkinson. È quanto ha riconosciuto anche la grande neurologa e miologa Michele Hu dell’Oxford Parkinson’s Disease Centre: “Io so quasi tutto quello che posso sapere sul Parkinson, ma non potrò mai conoscere il Parkinson o capirlo perché non ce l’ho”. A tutti coloro che lavorano nel campo del Parkinson rivolgo un appello: di lavorare con uno scopo unico, quello di migliorare la terapia e il benessere delle persone con Parkinson, perché qualche volta non è facile, c’è distanza, ci sono personalità lontane dai reali bisogni della malattia. E invece, nel nostro mondo c’è solo il Parkinson». Lei prima ha usato il termine “vittime” per le persone con il Parkinson. Come capovolgere questa percezione della realtà? «Il nostro approccio è quello di non trattare i parkinsoniani come vittime, con tutto quel che ne consegue: li facciamo alloggiare in alberghi a bassissimi costi; però sono alberghi, non stanze di ospedale. Del resto, il senso di vittimismo caratterizza il Parkinson, e un po’ tutti noi: trascorriamo molto tempo guardando indietro quello che non abbiamo più invece di osservare quello che possediamo davvero. Prendo ad esempio un episodio della mia vita: il matrimonio di mia figlia, lo scorso giugno. Mia figlia era sorridente, era un giorno spettacolare. Ero lì, ho fatto un discorso, ma poi sono stato preso da una tristezza incredibile e mi sono rifugiato in una stanza. Da solo. Mi sono chiesto se ci sarò quando nasceranno i miei nipoti, se sarò in grado di giocare con loro o di vederli crescere e sposarsi a loro volta. È stato molto doloroso. E anche molto sbagliato, perché ho quasi distrutto la più bella giornata della vita di mia figlia. E una delle più belle della mia, pensando a qualcosa che non è ancora successo e che potrebbe anche non succedere mai, perché domani un bus potrebbe interrompere per sempre la mia vita o, tra 10 anni, potrebbe essere scoperta una cura per il Parkinson. La verità è che la nostalgia del passato e l’ansia per il futuro distruggono, oggi, il presente. E una delle cose importanti per le persone con Parkinson è vivere oggi e sapere come farlo».

Lei cita spesso i suoi cari. Qual è il ruolo della famiglia in rapporto alla malattia e qual è l’approccio che il vostro Centro riserva ad essa?

«Noi vediamo le famiglie spaccate in due dal Parkinson e vediamo le famiglie unite dal Parkinson. Dov’è la differenza? La nostra psicologa spiega ai familiari come trattare le persone con Parkinson e coinvolgiamo la famiglia in tutte le fasi della terapia; così, quando tornano a casa, incoraggiano la persona con Parkinson nel modo giusto. Un aneddoto spiega perfettamente la situazione: allacciare i bottoni della camicia per un parkinsoniano è un incubo. Mia moglie è venuta ad allacciarmi i bottoni e mi sono arrabbiato, perché, con la sua azione d’amore, mia moglie mi stava dicendo: “Alex, sei diventato handicappato. Devo farlo io”. E mi sono sentito piccolo così. Allora mia moglie ha imparato. E la volta successiva ha fatto finta di niente. E io mi sono arrabbiato di nuovo, perché pensavo che non le interessassero i miei problemi. Allora, povera moglie, come deve comportarsi? Se fa troppo, mi tratta come una vittima. Se fa troppo poco, il matrimonio si spacca in due. Ma c’è una semplice frase molto utile per i familiari delle persone con Parkinson: “Amore, se hai bisogno io sono qua”. Basta: io provo a fare da solo con i miei bottoni della camicia e se non ci riesco, chiamo mia moglie. E lei mi aiuta. Ma lo decido io. Ho tutto sotto controllo».

La sua è una grande lezione di vita anche per le persone non affette dal Parkinson.

«Non voleva essere una lezione ma un’espressione di disperazione per tutti coloro che soffrono, perché spesso soffriamo ricordando il passato o pensando al futuro e non vediamo i bellissimi occhi di nostra moglie, i nostri figli che sono qui oggi: godiamo di questo adesso perché domani tutti avremo lo stesso futuro.